Óscar TABÁREZ ||| La storia di "EL MAESTRO"
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 Published On Oct 26, 2023

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Se nel mondo del calcio, secondo voi, gli allenatori si dividono in due categorie, i vincenti da una parte e i perdenti dall’altra, allora questo racconto rischia di non fare per voi. Quella che sto per raccontarvi è la vita straordinaria di un uomo che ha allenato tanto e vinto poco, almeno agli occhi di chi mantiene una visione così dicotomica del gioco che amiamo. È soprattutto la storia di un uomo che ha insegnato molto, in campo e fuori, dietro una cattedra e con un fischietto in bocca, correndo in campo e infine percorrendolo a fatica, aiutato da un bastone o da una macchinetta in grado di trasportarlo nei momenti più complicati. Un uomo che ha preso la parola davanti a una folla oceanica nel cuore di Montevideo, migliaia di anime ammassate per festeggiare un quarto posto mondiale che per un Paese numericamente piccolo come l’Uruguay è comunque una vittoria, e lo ha fatto con il cuore gonfio di gioia, accanto al presidente Pepe Mujica. Una volta lì, ha declinato la sua filosofia di vita parlando a un popolo intero. Tabarez non conosce la povertà negli anni dell’infanzia. Non cresce nel lusso, ma neanche nell’indigenza. A doña Chicha, che sui documenti si chiama Zulma ma non può sfuggire al destino sudamericano di avere un soprannome, tocca la gestione della famiglia e dei bambini: Oscar è il maggiore di tre fratelli, i più piccoli sono Williams e Walter. Il papà, don Oscar, lavora in un’azienda di prodotti lattiero-caseari, c’è sempre modo di mettere in tavola qualcosa in più del necessario. Il quartiere in cui cresce brulica di ragazzini che invadono le strade inseguendo un pallone, con le amicizie che nascono come un processo inevitabile: è la magia del calcio del popolo. I cavalli che hanno il compito di attraversare quelle vie anguste trasportando frutta e verdura spesso finiscono per perdere parte del carico e i bambini sfruttano l’occasione raccogliendo la frutta da terra. Sono gli anni in cui, per strada, tutti lo chiamano Washington: l’onore di essere chiamato Oscar, come il papà, arriverà soltanto più avanti. È un ragazzino estremamente riflessivo, che già dall’adolescenza si interroga sui massimi sistemi.

«C’è una cosa a cui pensavo spesso durante quegli anni. L’essere umano affronta soltanto due situazioni ineluttabili: la nascita e la morte. Per il resto, la vita è un viaggio e ognuno decide il proprio cammino. È il viaggiatore a fare il viaggio».

Il talento di Tabarez, per le strade di Montevideo, non ruba particolarmente l’occhio. Quello forte in famiglia è il cugino, Miguel Angel, velocissimo, tecnico, imprendibile. È uno di quei ragazzini baciati dal Divino, riesce a giocare in maniera sublime a qualsiasi sport preveda la presenza di un oggetto di forma sferica. È il fratello maggiore che Oscar, anzi, Washington, non ha mai avuto. Lo zio Ismael, il padre di Miguel Angel, allena el Ciclon del Cerrito, un club che si occupa solamente del settore giovanile, senza avere ambizioni di prima squadra. E di ambizioni ne ha poche anche Tabarez, che gioca per passione più che per convinzione. Sogna di fare l’attaccante ma sa essere estremamente analitico: non ha le qualità sufficienti per ritagliarsi uno spazio lì davanti nel Ciclon, e allora prova a riciclarsi in difesa. Si mette, sin dall’inizio della sua carriera, al servizio degli altri, con umiltà, senza sgomitare. E poi bisogna non deludere doña Chicha, che si dedica ai suoi figli con quella devozione viscerale che solo una madre sa avere: pretende che i ragazzi riescano a fare strada nella vita e per questo li guida negli studi. Trascinato anche dalla presenza di alcuni compagni di avventura, Tabarez sceglie di iniziare il percorso del Magisterio, per diventare insegnante.
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