Tutto Totò - Il Latitante
Roberto D'Aniello Roberto D'Aniello
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 Published On Nov 4, 2012

L'esile canovaccio, che pure presenta qualche spunto comico, è tratto da una rielaborazione che gli sceneggiatori, sulla falsariga de I mostri di Dino Risi (1963), avevano scritto per un film a episodi intitolato Le belve, il cui protagonista doveva essere Totò.
Prosciugato nella struttura narrativa, l'episodio si riduce a tre sketch, introdotti dall'uscita dell'attore napoletano dal carcere romano di Regina Coeli e conclusi con il suo rientro dopo l'arresto effettuato nientemeno che dal commissario Maigret, con tanto di cappello e pipa, che furoreggiava in quei mesi sugli schermi televisivi italiani, interpretato da Gino Cervi. Totò ritorna indietro di molti anni, quasi all'inizio della sua carriera teatrale, ormai invecchiato nel logoro frac, nei calzoni corti "a zompafossi" e sotto una bombetta che non si toglie nemmeno per farsi la barba o per andare al bagno. È chiaro ed evidente che gli autori vogliono presentare un Totò imbalsamato, cui è consentito solo di abbandonarsi alle solite mossette da marionetta meccanica come nella scena del ballo con le due ragazze accanto al juke-box, e ai suoi manieristici atleggiamenti, qui in un dosaggio sovraccarico ed esagerato, come è evidente nella scena con il senatore, dove arriva perfino a rovesciare un vassoio colmo di bicchieri. Il nome del personaggio, (Gennaro La Pezza, conclude il clichè, confinando la recitazione del comico su uno sfondo di mediocre ripetitività, nel quale tuttavia talora si intravede — sia pure confusa nelle nebbie del manierismo — l'antica luminosità caricaturale che aveva caratterizzato tutta la sua carriera di attore teatrale e cinematografico. La prima scena, con il vecchio compagno d'armi Enzo Turco nel ruolo del direttore del carcere, si lascia gustare e presenta qualche interesse, dovuto anche all'eccellenza di una spalla nobile — invecchiata anche questa — e di un dialogo non del tutto banale. Nella seconda, recitata in coppia con Mario Castellani, Totò ripropone il tipo dell'imbroglione capace di spillare al presunto compagno di scuola la somma di centomila lire; però nella terza, insieme a un misurato e garbato Giuseppe Porelli e a una impeccabile Lia Zoppelli, l'attore rompe l'equilibrio recitativo che più o meno aveva retto fino a questo punto e si abbandona a una serie di comportamenti abnormi ed esagerati, che sfaldano la sua recitazione riducendola a pura farsa pulcinellesca. Il fine e gustoso trickster di un tempo è qui diventato una figura scialba e insignificante che si trasforma in un guastatore quasi per dovere, con la coazione a tormentare il padrone di casa e il povero senatore con atteggiamenti da clown caricato a molla. Qualche gioco linguistico rituale, come «commiato» scambiato per «cognato» e le espressioni «E il lavoro che deve cercare me» e il solito «ma mi faccino il piacere», contribuiscono a complelare il ritratto, che culmina con l'autocitazione di "birra e salsicce", tratta da Totò sceicco.

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